I problemi correlati ai progetti di rigenerazione urbana delle città

I problemi correlati ai progetti di rigenerazione urbana delle città

Problems related to urban regeneration projects

I problemi correlati ai progetti di rigenerazione urbana delle città

La fine degli anni 1970 in Europa, con l’inizio del processo di deindustrializzazione ed il progressivo affermarsi della terziarizzazione dell’economia, segna l’ingresso nella cultura architettonica ed urbanistica di un nuovo concetto di città. Non si intende più solo un nucleo abitativo, economico e di servizi destinato ad una dilatazione indefinita sul territorio ma un luogo ove poter operare anche una ridefinizione dell’esistente, ovvero quella che oggi chiamiamo “attività di rigenerazione urbana”. Con il tempo, tale linea di pensiero si è venuta ulteriormente a rafforzare nell’ambito di una visione ecologista sui consumi del suolo, di sostenibilità e, ultimamente, anche di green retrofit dei fabbricati e di recupero del verde in area urbana in correlazione alle politiche di contrasto al riscaldamento climatico globale.
L’idea ha, in realtà, origini lontane, all’inizio connessa alle problematiche igieniche e sanitarie correlate a fenomeni di inurbamento incontrollato e di speculazione edilizia fuori controllo. Si può partire dal grande incendio di Roma del 64 d.C. (secondo l’interpretazione di Svetonio) per arrivare, in tempi più recenti, in Inghilterra alla metà dell’800 con gli interventi di trasformazione del quartiere di Westminster a Londra e, nel caso dell’Italia, al Piano di Risanamento di Napoli del 1888. In ultimo, un grande impulso è stato dato anche dalla politica di finanziamento dei Grandi Eventi e dalla Comunità Europea. Ad oggi, comunque, le problematiche sanitarie, di fatto, non esistono più e le finalità degli interventi sono principalmente connesse al riutilizzo e rifunzionalizzazione di zone industriali dismesse, waterfront in abbandono o in declino, ovvero al recupero di quartieri depressi da un punto di visto sociale ed economico.

In termini più generali, con rigenerazione urbana intendiamo quindi quell’insieme di politiche di recupero e riconversione degli spazi finalizzate al riposizionamento di parti di città in un quadro di rivitalizzazione socio-economico-ambientale. Questo come definizione. Da un punto di vista reale tale attività si traduce, in estrema sintesi, nel recupero o sostituzione puntuale di alcune parti dei tessuti urbani, con il “solito” posizionamento conseguente di attività pubbliche decentrate (università, uffici regionali, comunali, ASL, musei, …) oppure per attrarre realtà commerciali (in genere correlate a grandi gruppi) e, quindi, in pratica, generando un interesse per residenza, attività terziarie, imprenditoria o turismo che porti ad una sostituzione graduale della popolazione ivi stanziata con una con maggiore potere di spesa ovvero ad un incremento di quest’ultima. Questo in modo da generare un presidio interessato alla conservazione dei luoghi ed al loro recupero con conseguente aumento di valore di mercato. Creando, nel contempo, un effetto domino su realtà limitrofe.

In tal senso, la rigenerazione urbana è un’attività che, di fatto, può essere svolta fondamentalmente solo dall’attore pubblico. A prescindere dalle titolarità che ne consentono l’intervento, l’investitore privato non ha, infatti, in genere un potere di spesa tale da poter programmare azioni di risanamento urbanistico che sono, praticamente, a fondo perduto e tali da poterle inquadrare in un’ottica di recupero sull’incremento di valore sulle aree circostanti. Questa situazione si scontra anche con l’atavica incertezza e lungaggine dei tempi burocratici che impediscono programmazioni di investimento che possano basarsi su tempi di ritorno accettabili. Sulla tempistica si sommano poi le problematiche connesse alle dinamiche politiche di ricerca di consenso, alle pressioni lobbistiche dei gruppi economici ed ora ai nuovi concetti di partecipazione e concertazione con la cittadinanza che, sebbene pienamente corrette e sempre auspicabili, rischiano, se non bene condotte, di dilatare ulteriormente i tempi di decisione.

Bisogna altresì tenere presente che, al di là delle belle frasi altisonanti spesso messe nelle brochure dei bandi di rigenerazione, i risultati, per un effetto di contenimento di contesto, sono generalmente molto circoscritti, per cui le zone di estensione del cambiamento sono comunque connesse all’entità in superficie del progetto di rinnovamento e restano, in genere, nel raggio massimo di 1/2 Km dall’intervento stesso.

Altro elemento da tenere in considerazione è che queste politiche in contesti, come quello italiano, caratterizzati da scarsa vivacità economica, producono, comunque, effetti in tempi fisiologici medio lunghi: in media almeno 20-30 anni. In Italia, l’unica realtà che attualmente ancora evidenzia tempi di ritorno più ristretti può essere considerata solo Milano, dove risultati di contesto possono mediamente attestarsi già intorno ai 10-15 anni.

Da quanto detto, si hanno, quindi, una serie di fattori difficilmente compatibili con una logica privatistica degli interventi che ha necessità di raggiungere obiettivi in tempi economicamente sensati, razionali in relazione al costo del denaro e secondo un rapporto costi/benefici sostenibile.

Oltre alle problematiche evidenziate esiste però anche un fattore in genere ancora poco considerato o addirittura trascurato del tutto e che sia la compagine pubblica sia quella privata dovrebbero tenere in considerazione. In particolare, il pubblico dovrebbe considerarlo in relazione ad una valutazione sulla effettiva sensatezza dell’utilizzo di soldi pubblici per l’intervento ed il privato (sia grande o piccolo investitore) in termini di una corretta analisi sul senso effettivo di operare attività di investimento in aree in cui stanno avvenendo o sono previste attività di rigenerazione. Il fattore in questione è costituito dall’inerzia urbanistica dei luoghi di intervento, intesa come la resistenza che un ambito urbano oppone al proprio cambiamento.
Premesso che, ovviamente, il punto di partenza è un contesto degradato, questo elemento è connesso a più fattori legati alla componente storica, economica e sociale. Restringendo la valutazione all’area urbanistica-architettonica, bisogna comunque valutare:

  1. Le resistenze statiche connesse alla struttura dell’edificato di contesto
  2. L’immaginario collettivo correlato al tessuto urbano di intervento

In relazione alla 1. struttura dell’edificato è necessario tenere in considerazione:

  • Possibilità o meno di meccanizzazione dei connettivi verticali
  • Caratteristiche degli spazi in relazione alla conformazione e qualità (dimensione, illuminazione, ventilazione e microclima).
  • Struttura viaria e livello di difficoltà nei percorsi e negli accessi

I limiti alla meccanizzazione verticale, ove non presente, determinano un target di attrazione connesso principalmente ad una fascia giovane per i piani alti e, quindi, con possibilità finanziarie più ridotte. Condizione che limita sia la possibilità di crescita della fascia di prezzo nella vendita e di affitto sia, nel complesso, riduce le possibilità di investimento per il miglioramento successivo dell’immobile dopo l’acquisto o da parte dei proprietari per aumentare l’appetibilità e quindi i canoni di affitto stesso (restando in una visione ottimistica e un po’ idealistica di proprietari e locatari virtuosi).

Le caratteristiche degli spazi sono invece connesse alla tipologia di occupanti che può essere attratta (o nuovamente attratta): grandezza degli spazi, luminosità, salubrità delle unità immobiliari esistenti sono elementi che richiamano fasce sociali ed economiche di maggiore interesse per la rigenerazione di un’area. Altro elemento è l’omogeneità: spazi omogenei favoriscono un’occupazione da parti di gruppi sociali omogenei e attività. Tale elemento di valutazione può apparire poco politicamente corretto ma corrisponde, purtroppo alla realtà, in quanto la commistione di classi sociali troppo distanti non consente facilmente quel clima di stabilità necessario a favorire la continuità dei processi di recupero del contesto urbano.

Oggi la pedonalizzazione non è più un tabù ed anzi, in una visione di trasformazione in un contesto turistico, l’impossibilità/difficoltà di accesso delle auto, è diventata, all’opposto, un elemento favorevole. Comunque la presenza di vie anguste, con grandi dislivelli e di percorsi con scarsa illuminazione ovvero di strade ad alto scorrimento o a traffico elevato tendono ad essere elementi ostativi.

Per quanto riguarda il 2. Immaginario collettivo è necessario rendersi conto che, a prescindere da tutte le buone intenzioni e giuste affermazioni contrarie alla ghettizzazione, esiste, comunque, per ogni contesto un senso comune che associa ad una certa area (che sia quella effettiva di intervento oppure prossima alla stessa) e finanche ad una certa architettura un profilo economico e sociale della popolazione che la abita ed alla storia della sua formazione.  Con il massimo rispetto per tutti coloro che vi abitano, la sensazione che si ha, ad esempio, riferendosi ai Parioli oppure al Quartiere Coppedè è comunque purtroppo diversa da quella che si ha in relazione ad un quartiere della periferia di Roma.

Fatto salvo che l’attività di recupero urbano permane fondamentale, da quanto esposto emerge l’importanza di analizzare tutti gli aspetti che caratterizzano il contesto urbano che si vuole rivitalizzare. Questo in modo da evitare sprechi di risorse pubbliche o improvvidi investimenti privati oppure comunque rivolgere in  modo più produttivo le risorse economiche su altre attività di sostegno sociale o economico. Oppure potrebbe risultare addirittura più conveniente demolire il contesto urbano degradato, riportarlo ad una condizione naturalistica prossima a quella iniziale ritrasformandolo in un parco a verde oppure ad un litorale marino (ovviamente per le aree in abbandono).
Pertanto, in base a quanto espresso, parafrasando la celebre frase dell’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe, se in architettura vale l’affermazione che “Less is more”, nelle operazioni di recupero urbano potrebbe valere anche che “Nothing or zero might be better”.

Fonti
“Variazioni di inerzia” – Chiara Farinea – Ed. LISt Lab

Ing. Paolo Croce- ZED PROGETTI srl

The end of the 1970s in Europe, with the beginning of the process of deindustrialisation and the progressive establishment of the tertiaryisation of the economy, marked the entry into architectural and urban culture of a new concept of the city. It is no longer just a residential, economic and service centre destined to expand indefinitely over the territory, but a place where it is also possible to redefine the existing, that is, what we now call “urban regeneration activities”. Over time, this line of thought has been further strengthened in the context of an ecological vision on land consumption, sustainability and, recently, also the recovery of green areas in urban areas (retrofit green) in connection with policies to combat global warming.
The idea has, in fact, distant origins, at first connected to hygiene and health issues related to phenomena of uncontrolled urbanization and building speculation. One can start from the great fire in Rome in 64 A.D. (according to Suetonius’ interpretation) to arrive, more recently, in England in the middle of the 19th century with the transformation of the Westminster district in London and, in the case of Italy, the 1888 Naples Restoration Plan. Finally, a great boost was given by the policy of financing major events and the European Community. To date, however, the health problems, in fact, no longer exist and the purposes of the interventions are mainly related to the reuse and re-functionalisation of disused industrial areas, abandoned or declining waterfronts, or the recovery of depressed areas from a social and economic point of view.
In more general terms, by urban regeneration we therefore mean that set of policies for the recovery and reconversion of spaces aimed at repositioning parts of the city in a framework of socio-economic-environmental revitalization. This as a definition. From a real point of view, this activity translates, in extreme synthesis, into the recovery or punctual replacement of certain parts of the urban fabric, with the “usual” consequent positioning of decentralized public activities (universities, regional and municipal offices, Local Health Authorities, museums, …) or to attract commercial realities (generally related to large groups) and, therefore, in practice, generating an interest in residence, tertiary activities, entrepreneurship or tourism that leads to a gradual replacement of the population allocated there with a greater spending power or an increase in the latter. This in order to generate a garrison interested in the preservation of the places and their recovery with a consequent increase in market value. Creating, at the same time, a domino effect on neighbouring realities.
In this sense, urban regeneration is an activity that, in fact, can be carried out fundamentally only by the public actor. Regardless of the ownership that allows the intervention, the private investor does not, in fact, generally have a spending power such as to be able to plan actions of urban recovery that are, in fact, non-refundable and such as to be able to frame them in a perspective of recovery on the increase in value of the surrounding areas. This situation also clashes with the atavistic uncertainty and length of bureaucratic time that prevent investment schedules that can be based on acceptable payback times. The problems connected to the new concepts of participation and consultation with the citizens are then added to the timing. Although fully correct and always desirable, these concepts, however, further extend the times of decision as well as, in various cases, can connect with political dynamics of consensus-seeking.
It should also be borne in mind that, apart from the beautiful high-sounding phrases often put in the brochures of calls for regeneration, the results, for an effect of context containment, are generally local, so the areas of extent of change are still related to the extent of the surface of the renewal project and remain, in general, within a maximum radius of 1/2 km from the intervention itself.
Another element to take into account is that these policies in contexts, such as the Italian one, characterized by a lack of economic liveliness, produce effects in medium-long physiological times: on average 20-30 years. In Italy, the only reality that currently still shows shorter return times can be considered Milan, where context results can average around 10-15 years.
From what has been said, therefore, there are a series of factors that are difficult to reconcile with a private logic of interventions that needs to reach objectives in economically sensible times, rational in relation to the cost of money and according to a sustainable cost/benefit ratio.

In addition to the problems highlighted, however, there is also a factor that is generally still little considered or even completely overlooked and that both the public and private sectors should take into account. In particular, the public should consider it in relation to an assessment of the real meaning of the use of public money for intervention and the private sector (whether large or small investor) in terms of a correct analysis of the real sense of operating investment activities in areas where regeneration activities are taking place.
The factor in question is the urban inertia of the places of intervention, understood as the resistance that an urban environment opposes to its own change.
Considering that, obviously, the starting point is a degraded context, this element is connected to several factors linked to the historical, economic and social component. Restricting the evaluation to the architectural urban area, it is necessary to evaluate:
1. The static resistances connected to the structure of the context building
2. The collective imagination related to the urban fabric of intervention
In relation to the 1. structure of the building it is necessary to take into account:
– Possibility or not of mechanization of the vertical connectors
– Characteristics of the spaces in relation to the conformation and quality (size, lighting, ventilation and microclimate).
– Street structure and level of difficulty in routes and accesses
The limits to vertical mechanization, where not present, determine a target of attraction mainly connected to a young band for the upper floors and, therefore, with lower financial possibilities. This condition limits both the possibility of growth of the price range in the sale and rental and, on the whole, reduces the possibility of investment for the subsequent improvement of the property after purchase or by the owners to increase the attractiveness and therefore the rents themselves (remaining in an optimistic and somewhat idealistic view of virtuous owners and tenants).
The characteristics of the spaces are instead connected to the type of occupants that can be attracted (or again attracted): the size of the spaces, brightness, healthiness of the existing housing units are elements that recall social and economic groups of greater interest for the regeneration of an area. Another element is homogeneity: homogeneous spaces favour an occupation by parts of homogeneous social groups and activities. This element of evaluation may appear classist and unpleasant to most, but unfortunately corresponds to reality, as the mixture of social classes too far away does not allow easily that climate of stability necessary to promote the continuity of the processes of recovery of the urban context.
Today, pedestrianization is no longer a taboo and indeed, in a vision of transformation into a tourist context, the impossibility/difficulty of access of cars, has become, on the contrary, a favorable element. However, the presence of narrow streets, with large gradients and routes with poor lighting or roads with high flow or high traffic tend to be difficult elements.
As far as the 2. Collective imagination is concerned, it is necessary to realize that, regardless of all the good intentions and right statements against ghettoisation, there is, however, for each context a common sense, certainly wrong but still existing, which associates an economic and social profile of the population living in it and the history of its formation with a certain area (whether it is the actual area of intervention or near) and even with a certain architecture. With the utmost respect for all those who live there, the feeling that you have referring to the Parioli or Coppedè district is unfortunately different from what you have in relation to a neighborhood on the outskirts of Rome.

Without prejudice to the fact that the activity of urban regeneration remains fundamental, it emerges from the above that it is important to analyse all the aspects that characterise the urban context to be revitalised. This is done in order to avoid wasting public resources or sudden private investments, or in any case to direct economic resources more productively towards other social or economic support activities. Or it might even be more convenient to demolish the degraded urban context, bringing it back to a natural condition close to the initial one, transforming it back into a green park or to a sea coast (obviously for abandoned areas).
Therefore, on the basis of what has been expressed, paraphrasing the famous phrase of the German architect Ludwig Mies van der Rohe, if the statement that “Less is more” is valid in architecture, in urban regeneration operations it could also be valid that “Nothing or zero might be better”.